Qualche considerazione circa la felicità secondo la prospettiva di Platone e di Aristotele/breve pillola di saggezza e cultura filosofica
Qualche considerazione circa la felicità secondo la prospettiva dei filosofi nell'antichità
L'argomento etico, morale con ricaduta comportamentale è sempre stato appannaggio dell'interesse dei filosofi di tutti i tempi e di tutte le epoche sia per il modus vivendi personale, individuale, sia per quello collettivo, così da creare un complesso di regole e di norme condivise e rispettate nella mutua reciprocità. I concetti di felicità e di libertà sono così venuti ad incontrarsi nell'alveo di un unico discorso, organico e complesso. Ora, si vuol qui giusto dare un breve cenno a questa tematica che andrebbe, invece, sviscerata in modo più approfondito.
Alcune citazioni, opportunamente scelte, serviranno allora ad enucleare questa tematica dando il senso generale del discorso.
Che il discorso della libertà e della felicità fossero uniti da un comune "filo rosso" è cosa antica, addirittura ben precedente le cosiddette scuole del periodo etico, morale, cui si è fatto cenno nel mio breve video di ieri: lo stoicismo, lo scetticismo, l'epicureismo, l'eclettismo, terminato il periodo antropologico polarizzavano la loro attenzione proprio sul ritrovare principi primi che legittimassero universalmente la "costruzione" di un'etica condivisa, magari anche nella diversità delle posizioni, ma contenente principi unitari tali per cui si potesse edificare una prassi della libertà che, individualmente, potesse aspirare all'etica della felicità.
L'epoca antica ci porta però già a dei riferimenti (e che riferimenti!) particolarmente ricchi in questo senso. Leggiamo, ad esempio, in Platone: "Del resto noi non fondiamo la città avendo questo di mira, come una classe del popolo possa essere straordinariamente felice, ma come lo sia al massimo possibile l'intera città" (Platone, Repubblica, IV, 420b)
L'aspetto e la condizione individuale, lo leggiamo in queste poche ma preziosissime parole di Platone, lasciano il posto ad un'etica della pluralità, della collettività, nell'esercizio delle pubbliche funzioni, anche statuali.
Certo, è importante, per non dire fondamentale che la felicità e la libertà collettive passino attraverso l'evoluzione e la maturazione di uguale situazione a livello individuale e ciò perviene dopo che ciascun singolo individuo ha compreso e raggiunto il proprio scopo, come ci ricorda Aristotele: "Come per un flautista, per uno scultore, per ogni artigiano, e in generale per coloro che hanno un compito o un tipo di azione, il bene e il successo sembrano consistere nella realizzazione del compito; così si può credere che ciò valga anche per l'uomo, se è vero che anche l'uomo ha un qualche compito. Ma è dunque possibile che vi siano compiti e azioni di un falegname e di un calzolaio, e dell'uomo non ve ne sia nessuno ed egli sia senza compito per natura? O forse piuttosto, come sembra esservi un compito dell'occhio, della mano, del piede e in generale di ciascuna delle parti, così anche dell'uomo, si potrebbe porre un compito proprio oltre tutti quelli particolari. (Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1, 1097b 25 - 28).
Il discorso è cristallino e non fa una piega e si sposta solo dal piano individuale a quello collettivo e ciò, sul piano morale teorico e poi comportamentale pratico è già stato ampiamente dibattuto, ma - parimenti importante - è l'individuazione, per ciò che già si è detto prima, in premessa, degli obiettivi che il singolo si pone.
Il singolo si pone, così, scopi, obiettivi, fini ed al riguardo, sempre Aristotele ci ricorda quanto segue nell'opera citata: "Siccome è evidente che i fini sono numerosi, e che noi scegliamo alcuni fini a causa di altre cose, per esempio ricchezza, flauti e in genere gli strumenti, è chiaro che non tutti sono perfetti, ma il fine più alto è evidentemente qualcosa di perfetto. Di modo che se uno solo è il fine perfetto questo verrà a essere ciò che cerchiamo, se invece sono più di uno ciò che cerchiamo sarà il più perfetto di tutti (...) E si stima che tale sia soprattutto la felicità: infatti la scegliamo sempre per sé e mai per altro." (Aristotele, Etica Nicomachea I, 1, 1097a 25 ssgg.)
Fine ultimo e fine primo: due facce di una medesima medaglia. Il perseguimento della conoscenza, equivale, già per Aristotele, al raggiungimento della felicità, della libertà e ciò rende possibile l'instaurarsi del libero consorzio umano, della società ma anche, a livello individuale, il raggiungimento di quel principio che ci porta e ci legittima la condizione di felicità e di libertà. Conoscenza e morale, ancora una volta, coincidono come già era avvenuto per Socrate e per Platone.
Grazie, buona giornata a tutti. Buoni spunti di riflessione!
Prof. Ivo Mandarino
Prof. Ivo Mandarino
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